Luigi Russo – Fotografare

Per me Luigi Russo rappresenta un esempio di fare fotografia e arte non unico, ma sicuramente particolare e in qualche modo paradigmatico. Un caso silente fino ad ora, ma conforme al proprio modo scrupoloso di concepire le sue attività e dar loro forma.

Lo conosco da decenni in veste di direttore di Parchi Naturali. Con lui ho realizzato progetti dedicati al rapporto tra Natura, Scultura e Performance che ricordo come esperienze belle e significative nel mio percorso di curatrice. Quindi parlo ancora di un Luigi Russo ambientalista e naturalista, di un referente di notevole competenza e professionalità e anche di una persona sicuramente sensibile all’arte. Poi, di recente e a distanza di anni, succede che mi telefona e mi racconta di una nuova scelta di vita, della sua decisione di dedicarsi principalmente a quella che era stata da sempre un’attività “segreta”.

E’ così che per me si è aperto il sipario sulla sua fotografia, su una parte di sé che ha coltivato fin da ragazzo, ma che nessuno conosceva. Mi racconta, infatti, che fin dall’epoca del liceo scattava e stampava foto e che, già appassionato di Natura e di macrofotografia, ne aveva anche realizzate molte a livello professionale destinate ad ambiti medici, scientifici e legali. Da quegli anni in poi ha continuato ad interessarsi al mondo della fotografia e a fotografare, dedicandosi anche al digitale e alle tecniche di postproduzione che gli avrebbero permesso di realizzare lavori astratti e surreali.

Ecco dunque che ciò che si scopre come novità è invece un interesse costante che ha sempre accompagnato la vita di Luigi Russo e che anzi è un’attività che si è alimentata di saperi, conoscenze ed esperienze che provenivano anche dal suo impegno e dalla sua professione di ambientalista e naturalista. Probabilmente si deve a questa lunga formazione complessa ed accurata che le sue opere fotografiche si presentano come dei bellissimi racconti, tecnicamente impeccabili e allo stesso tempo ricchi di poesia e di personalità. Il lavoro che ha svolto negli anni viaggia parallelo a quello di fotografi molto più conosciuti di lui, ma insieme ai quali ritengo che avrebbe potuto partecipare a progetti, ricerche ed esposizioni.

I suoi linguaggi si sono evoluti ed articolati attraverso le vicende sociali e ambientali che hanno caratterizzato la nostra cultura, la nostra collettività e la nostra dimensione psicologica. L’amore per la Natura agli inizi lo aveva portato a celebrare le microscopiche strutture di piante e insetti e a documentare luoghi allora ancora incontaminati. L’emergenza ambientalista non aveva all’epoca i contorni catastrofici che ha raggiunto oggi.

Poi, nel tempo, è come se lui avesse avvertito l’imminente pericolo della perdita del paesaggio. La sua attenzione ha iniziato a rivolgersi in modo più radicale agli esseri umani, a volti di persone anziane come monumenti in rovina che affioravano dal passato. Il sovrapporsi dei loro volti, lo sfumare delle loro rughe e delle loro antiche culture, le loro mani impegnate in lavori lenti, ripetitivi e salvifici come mantra, i frammenti di danze rituali, ecco tutto questo appariva ormai come una semplice traccia, una scia lasciata da umani-umani e non da noi.

Di lì a poco questa traccia, che in quanto tale rappresenta l’essenza stessa della fotografia, si è ulteriormente smaterializzata trasformandosi in pura astrazione. E’ stata questa nuova grammatica il suo modo di riconnettersi al nostro mondo, di rappresentare le onde che affollano il nostro etere, i guizzi neuronali del nostro cervello e della nostra mente. Da qui provengono i suoi lavori in digitale astratti, focalizzati a rappresentare gli ingranaggi della percezione, e poi le sue foto di una Natura surreale e postuma, con mari psichedelici e sdoppiamenti del reale. Ma il più piccolo frammento di ricordo presente in queste opere, capitato lì quasi come un lapsus, diventa un dispositivo che provoca in lui un cortocircuito. Grazie ad esso decide di tornare a percepire la realtà così come si presenta, come un fenomeno assoluto e non mediatico. Nel suo linguaggio fotografico tornano edifici solitari, spazi urbani come veri e propri non-luoghi, due inquietanti gatti accoccolati che sembrano finti e sdolcinati come quelli di una vetrina.

Successivamente compie un’altra virata, si dedica alla spiaggia, alla sabbia e alle orme che essa per breve tempo trattiene. Questa sua fase costituisce contemporaneamente un azzeramento e un grande ritorno. Attraverso esili impronte di zampe, di piedi, di rami, di solchi lasciati dal refluire del mare, il suo mondo sembra riprendere energia, con calma, ripartendo dagli albori. Luigi Russo ora con queste opere inizia un nuovo racconto che parla al genere umano di una nuova storia, di un’estrema possibilità di rinascita. I detriti millenari e nuovi che compongono la sabbia, quell’insieme di elementi capace di includere e omologare tossicità e purezza, contengono in negativo impronte di un qualche movimento, l’indizio di flussi d’aria, di acque e di corpi, proprio come i negativi delle vecchie pellicole. Si tratta di impronte implicite che, come la luce impressa nella celluloide, potranno essere sviluppate diventando qualcosa di reale.

Per assonanza con questo concetto lui realizza un ulteriore recente lavoro. Questa volta si tratta di una scultura che contiene luce, di un astro artificiale e poliedrico. Ogni suo piccolo lato è composto da una diapositiva, di una tra le migliaia di immagini da lui scattate e impresse su un supporto appartenente ormai all’archeologia tecnologica, per alcuni un prezioso reperto dell’era analogica. Come un granello di sabbia è pur essa un detrito proveniente dal vecchio mondo e non solo un insignificante rifiuto che la società cataloga come non riciclabile. Per Luigi Russo è importante salvarlo sia a livello materiale che a livello simbolico. In fondo si tratta di un’operazione di ecologia mentale. E’ come se dalla nostra civiltà deteriorata, frullata, impastata di nuovo e poi esplosa come lava da un cratere, sorgesse un nuovo astro e un nuovo sistema solare.

Francesca Pietracci
Storica dell’arte e curatrice

STEFANIA LUBRANI FIORE

"...Si, un fotografare rarefatto, e’ quello di Luigi Russo, sempre estremamente nitido anche nelle immagini più astratte, che hanno nel loro perimetro una determinazione netta , limpida, essenziale, nulla più del necessario compare nello scatto , ingabbiato oltre la luce e centrato come un colpo di pistola. Nella luce ogni sogno si acquieta , come avviene nella poesia, queste opere hanno una loro metrica , pacata, scandita spesso in tre campi. Il punto di vista e’ centrale, nessuna obliquità o accenno a qualcos’altro non visibile. Tutto è definito, incastonato e vive in un perimetro, nulla oltre l’immagine: le ombre creano solo tridimensionalità, (per esempio nella foto della spiaggia di San Menaio 2006 “Alberi nella sabbia”) non evocano atmosfere ne’ sfumano i volumi. Tutti i soggetti poi, son resi come fossero della stessa consistenza e misura: il cielo denso come le montagne, la vespa sul fiore potrebbe essere di qualunque dimensione, come i fiori stessi e le foglie, l’erba, il sole, il tramonto, il mare, per magia, tutti con lo stesso peso specifico, complice la scelta della luce. Infine la sequenza: dal più definito al completamente astratto tutto finisce in un lampo di luce....."

ZORAN DJUKANOVIC

"È davvero emozionante vedere la diversità delle tue passioni e dei tuoi amori in un'unica mostra... le forze vitali naturali nei paesaggi naturali, negli animali e nelle piante, insieme alle forze culturali nell'architettura, nella danza umana, nelle barche e nelle automobili che sottolinei con il tuo sottile senso dell'arte. l'astrazione... è così poetico... i colori, le composizioni, le proporzioni, sono davvero BELLISSIMI!!!... Grazie infinitamente per questa gioia che mi hai offerto..."

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